Correvano i primissimi anni ‘70, e nel bar frequentato dai ragazzi e dalle ragazze del Duomo si vedeva spesso una tipetta diversa dalle altre, fidanzata di uno che sarebbe divenuto, nei ‘90, nientemeno che senatore. Lei non era del gruppo, forse veniva dal vicino borgo Trento, chissà. La tolleravano, per quello spirito di chiusura rionale che allora si esercitava anche in forme radicali, con esclusioni che non ammettevano repliche (niente a che vedere, in ogni caso, con i razzismi quotidiani di cui la nostra città è divenuta la portatrice insana per eccellenza). La verità è che la ragazza non piaceva, soprattutto perché si truccava troppo. A rivelare l’esagerata stratificazione delle pitture fu, come al solito, l’ingenuo della compagnia, quello che un bel giorno la condannò senza possibilità di appello, dicendo semplicemente: «La me par el cementificio de Fumane!». Fu quella una diagnosi impietosa ma calzante, perché tutti capirono che la pietra di paragone era il fastidioso paesaggio nevicato, che il cementificio più noto della provincia di Verona aveva contribuito a creare.
La ragazza, nel frattempo, avrà cambiato totalmente il suo look. Quello che invece esagera con i trucchi è il termine di paragone: lui, il semprevivo cementificio di Fumane. Non solo spande cortine di fumi e una messe di polveri (la sua cipria esclusiva!), ma attinge a man bassa ai trucchi della retorica e del politichese, agli scambi di favore. Un doppio trucco mortale, dal quale tuttavia esce continuamente indenne. Visto che di ceneri si tratta, diciamo pure che è come l’Araba fenice! In tutto questo, però, c’è un’esagerazione, ‘un di troppo’, che nessun ingenuo è ancora riuscito a svelare, e, di conseguenza, neppure a scalfire.
Il cementificio deve avere truccato le carte fin dall’inizio, e si dev’essere insediato nelle coscienze, prima ancora che nel luogo fisico in cui è, proprio nell’epoca in cui la cultura contadina subiva i più forti contraccolpi a opera della cultura industriale. Questo mostro, calato nel ventre di un fine valle e nel ventre delle coscienze scosse e ammutolite dai cambiamenti, divenne così, per il semplice fatto di esserci, con la sua epifania, il sovrano assoluto del luogo, assoluto nel senso letterale del termine: absolutus, sciolto da ogni legame, da ogni vincolo, anche da quello con il principio di realtà.
Scacciare questo sovrano crudele e tirannico, divenuto genio protettore del luogo, è impresa tutt’altro che facile. Forse bisognerebbe rivestirlo di panni diversi, allontanando dalla vista e dall’orecchio tutte le cortine fumogene con cui alletta le coscienze.
Forse il mito, il mito che è stato inventato per additare alle donne e agli uomini la strada del possibile, ci può ancora soccorrere. Proviamo a immaginare la grande fabbrica come la Sfinge, che sulla strada dal monte al piano sbarra la via ai passanti, sottoponendo loro l’indovinello irrisolvibile con cui li condanna a morte. Finché viene Edipo- figlio di re, ma anche sfigato, come direbbero i giovani di oggi: uno sfigato, che però riesce a capire che la domanda della Sfinge esige come risposta: «l’uomo».
Come la Sfinge sconfitta dalla risposta di Edipo, il cementificio deve volatilizzarsi, sparire dentro l’ultimo dei suoi fumi. Ma perché questo accada, deve prima essere rivelata la sua natura di idolo crudele, di tiranno cannibalesco, a cui solo l’uomo può contrapporsi, con la nudità di una risposta semplice: io sono l’uomo, e tu, tu sei il mostro.
Cristina Stevanoni
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